Fausto Coppi, la leggenda del ciclismo che insieme a Gino Bartali scrisse una delle pagine più belle dello sport, della sana e sportiva rivalità , si spense il 2 gennaio 1960 in un letto dell’ospedale di Tortona, affetto da una forma aggressiva di malaria, scambiata erroneamente da una forte influenza.
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Più che un palmares chilometrico (cinque Giri d’Italia, due Tour de France, un Mondiale su strada e due Mondiali su pista) Faustino “Airone” Coppi scolpì nell’immaginario collettivo dell’epoca – e ancora continua a rappresentare – una granitica immagine di un uomo più forte della fatica, solo di fronte ai suoi limiti, leale ma combattivo, un “congegno superiore” come lo definì Gianni Brera.
Ci sono tantissimi aneddoti sul suo ricordo e le sue imprese, sulla storica rivalità con Gino Bartali e la relazione extra-coniugale con la Dama Bianca che divise e appassionò l’Italia. Basterebbe ricordare quando nella Milano – Sanremo del ’46, il radiocronista Niccolò Carosio sottolinea lo scarto tra Coppi e il resto dei corridori:
Primo Fausto Coppi. In attesa degli altri corridori, trasmettiamo musica da ballo
O di quando Maurice Diot festeggià il suo secondo posto alla Parigi – Roubaix del ’50 come se l’avesse vinta lui:
Ho vinto la Roubaix. Coppi era fuori concorso
Eppure Fausto Coppi era schivo e riluttante ai riflettori, soprattutto riguardo la sua vita privata presa a pretesto dal pubblico e dai giornali per mitizzare quelli che in fondo erano solamente due campioni del ciclismo e dello sport o non icone da “dopoguerra”.
Gino Bartali rappresentava infatti la virilità contadina, l’Italia tradizionalista e forse un po’ moralista, mentre Fausto Coppi rappresentava l’eleganza e la fragilità atletica, la libertà a volte considerata deprecabile, spesso addirittura la contrapposizione polita tra il Partito Comunista italiano e la Democrazia Cristiana. In tutto questo l’ennesimo stereotipo forzato: Coppi solo e vincente, Bartali l’eterno secondo, Magni il terzo uomo all’ombra dei titani.
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